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di Michele Mirabella

Una mia zia teneva nell’armadio una scatola bianca, una scatola legata con uno spago che recava una scritta: “Lacci inservibili”. Non ricordo il tempo di questa mia scoperta, ma dato che mia zia aveva, più o meno l’età che ho io adesso, la memoria è incerta perché l’aneddoto si sovrappone all’aneddoto, il vecchio racconto alla citazione e via scrutinando nel “sembra ieri” che affascina spesso il nostro consolatorio attardarci nella memoria. Un fatto è certo, la signora godette ottima salute fino a cent’anni o giù di lì.

Chi sa se la signora custodiva davvero lacci inservibili in quella scatola bianca. Non lo sapremo mai. Per anni ho riso di quella stramberia e non mi sono curato di capire quale ragione avesse la signora per conservare dei lacci inservibili. Adesso lo so. Sarà l’età, sarà l’esperienza, ma, di certo, ho imparato il sottile piacere del conservare. Un piacere che, evidentemente, fa benissimo alla salute. Non si tratta dell’altezzosa passione dell’archeologia o dell’astuto calcolo dell’antiquariato, si tratta proprio del piacere di conservare o, meglio, della scaramanzia verso il futuro oscuro e indecifrabile. 

Il bello è che conservo non solo quanto posso o quanto proprio non mi fa schifo di quello che arriva dal supermercato del consumismo quotidiano, ma, soprattutto, recupero, archivio e custodisco il passato recente che ho dilapidato in un giovanile furore di rinnovamento quotidiano. Questa seconda frenesia m’è assicurata dalla frequentazione accanita e deliziosa dei mercatini dell’usato e del trovarobato dove è possibile reperire la paccottiglia meravigliosa di una Recherche minuscola e ludica: soprammobili, giocattoli, utensili, figurine e tutto il bric-à-brac reperibile nel mercato delle pulci. Per non parlare dei libri! 

Cosa c’è dietro questa meticolosa e piccola follia? La voglia forse di disvelare che il Tempo regola la nostra storia di uomini, da un canto, nascondendo molte opere del nostro breve destino, anche quelle più ingegnosamente pensate e, dall’altro, mettendo a nudo la verità concordemente col suo trascorrere implacabile. E, allora, dopo le mareggiate del tempo trascorso, resta sulla battigia il rudere austero e la testimonianza solenne, il rottame e il reperto, qualche nota, qualche verso, molte parole sparse.

Ma resta, anche, il quotidiano ricordo di tutto quello che ci ha aiutato a vivere, a sopravvivere, ad amare e soffrire, a patire il tempo, a tirare avanti, anche a ridere e sorridere. Il collezionismo conservativo e  non affaristico e speculativo prende avvio dalla voglia dolce di riordinare le idee e i ricordi che sono, si, rintracciabili nelle Grandi Opere nostre o di altri passeggeri che transitano sull’atomo opaco del male in cui ci è stato dato di tirare a campare, ma anche in piccole prove di abilità e di praticità  nel renderci la vita meno complicata o meno amara.

Nella vetrinetta troveremo, così, un temperino a più lame, il quaderno nero col bordo rosso, la trombetta, dei pennini, la pupa di Lenci e anche, perché no, i lacci inservibili di nostra zia.

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